Domenica 11 novembre 2018, tra i soli ventidue italiani partecipanti alla quarantesima edizione della Istanbul Marathon ero compreso anch’io, cosicché voglio di testimoniare sinteticamente ed esprimere considerazioni del tutto personali sulla manifestazione e sulla città di Bisanzio (chiedo venia: Costantinopoli-Nuova Roma; scusate ancora, Istanbul, ma sui giornali locali ho visto scritto anche Istambul). Insomma per me è Costantinopoli, per motivi di Credo.
Inizio con la gara. Nessuno mi crederà se dico il costo d’iscrizione on-line – con tanto di fattura -fatta a luglio prima che il server “ottomano” andasse fuori uso, è ammontato a 40 lire turche, al cambio euro 7,50! (lo scrivo anche in lettere come sugli assegni: sette/50). Non ho mai pagato così poco per una gara, nemmeno per una stracittadina paesana. Tuttavia era anche possibile eseguire l’iscrizione sabato 10 novembre, con un modesto sovrapprezzo, presso la moderna e grande struttura adibita a centro maratona dell’Avrasya Gösteri ve Sanat Merkezi che si trova vicino all’approdo navale di Yenikapi sul mar di Marmara.
Per accedere poi all’interno di esso dovevi eseguire le seguenti operazioni: controllo con metal detector ed eventuale perquisizione; compilazione di un modulo che doveva essere firmato, indicante i tuoi dati da presentare insieme al documento di identità all’impiegato che, verificata la corrispondenza dei dati, rilasciava un tagliando con un codice a barre indicante il tuo nome e cognome. Dopodiché dovevi passare il predetto codice sul lettore del tornello e finalmente avevi titolo ad accedere all’interno dell’immensa area espositiva in un clima di grande festa per ritirare il pacco gara: costituito dal pettorale di gara (casualmente corrispondente con il mio anno di nascita), il chip per la rilevazione elettronica dei tempi, una bella maglia tecnica, una confezione di lokum (un tipico dolce turco) e una bella sacca degli indumenti la quale dovevi consegnare alla partenza per ritrovarla all’arrivo. Potrebbe sembrare militarizzata la procedura, ma ciò non ha creato alcun disagio.
Per la città la maratona era molto pubblicizzata, anche se durante il mio breve soggiorno di gente che praticava jogging ne ho vista poca. Anche le informazioni – precise – per i concorrenti non sono mancate, con l’invio di raffiche di e-mail.
La partenza è molto suggestiva. Si parte dall’Asia, di là dallo stretto del Bosforo, e si attraversa il “Ponte dei Martiri del 15 luglio” lungo più di un chilometro e mezzo per rientrare in Europa; per questo la gara è anche conosciuta come Eurasia Marathon. Per raggiungere l’Anatolia dalle ore 7,00 alle 7,30, da Sultanahmet e da piazza Tasksim, potevi fruire dei bus, una quantità esagerata, e salivi a bordo solo ed esclusivamente passando di lì per un apposita gabbia dopo il controllo al metal detector (in sostanza non si raccattava per strada nessuno).
I classificati della maratona sono risultati 4.498, pochi in relazione alla popolazione della sterminata area metropolitana che conta circa quindici milioni di abitanti. Ma i grandi numeri di partecipanti li hanno fatti le altre due gare competitive di 15 e 10 km e la camminata di 8 km, le cui partenze sono state scaglionate a distanza di quindici minuti dalla 42 km, avvenuta alle ore 9,00.
Una fiumana umana mai vista, un colpo d’occhio impressionante. Non saprei quantificarla ma non credo di esagerare indicando un numero a sei cifre. A un certo punto, prima di entrare nella zona riservata alla 42 km mi sembrava di stare al Gran Bazar di Istanbul nelle ore di punta, cioè ero pigiato come una sardina in scatola. Mi ha destato stupore anche l’infinita quantità di WC chimici a disposizione, e nessuno si è azzardato di concimare il suolo anatolico ai lati dell’autostrada, tra l’altro ben curato.
Per quanto mi riguarda, i primi quindici km con il passaggio transcontinentale, il transito davanti al Palazzo Dolmabahçe, l’attraversamento del Corno d’Oro dal ponte di Galata e gli ultimi due km, ovvero la salita impegnativa del promontorio del Serraglio (palazzo Topkapi) e l’arrivo a Sultanahmet (Santa Sofia e Moschea blu), meritano tanto. I restanti sono risultati abbastanza anonimi, ovvero costituiti da un andata e ritorno lungo la grande arteria Kennedy a tre corsie per ogni senso di marcia, che costeggia il mar di Marmara: attento a non sbagliare a prendere il tunnel sottomarino Marmaray che ti riporta dalla Tracia, nuovamente in Asia.
Anche il tifo non è stato niente male, così come i ristori molto ravvicinati. In definiva è stata una bella festa di sport, che non mi sarei mai aspettato, con un organizzazione efficientissima di stampo militare che non ha trascurato alcun dettaglio: come quello che, al traguardo di Sultanahmet, su un grande display a colori veniva visualizzato il nome di ogni maratoneta, il tempo impiegato e la bandiera della nazione di appartenenza. Di che lamentarsi, visto il prezzo? Quanto costa l’iscrizione alla blasonatissima maratona di New York? Lascio in sospeso questi quesiti.
Siamo cresciuti un po’ tutti con l’intercalare “mamma li turchi”, ma in questo caso non posso che congratularmi con loro e dire che in occasione di questo grande evento sportivo sono stati veramente bravi.
Concludo esponendo quello che ho percepito da turista e osservatore degli usi e costumi locali. Istanbul è una città proiettata nel futuro da visitare una volta nella vita per quello che rappresenta per la cristianità e per la storia. Ho trovato una città moderna, pulita, invasa da un esercito di operatori ecologici che raccolgono ogni cicca di sigaretta. Così come la polizia disseminata in ogni angolo di strada in assetto da guerra, che dà un senso di sicurezza (ma attenti a rigare dritto altrimenti…). I mezzi pubblici sono efficienti e il traffico non è più caotico di quello delle nostre città. Ho girato da solo anche di notte senza che alcuno mi arrecasse disturbo. Non ho notato persone dedite agli eccessi per strada. Ho trovato gente pronta ad aiutarti quando chiedevi informazioni e ho mangiato divinamente a un onestissimo costo. Sabato 10 novembre 2018 ricorreva l’ottantesimo anniversario della morte del padre fondatore della Repubblica di Turchia Mustafa Kemal Atatürk spentosi nel Palazzo Dolmabahçe. Ecco perché alle ore 9,05 (ora del trapasso) mentre entro in fila per l’ingresso nel tempio della cristianità di Santa Sofia, trasformata per volere di Atatürk da moschea in museo, tutte le bandiere nazionali della Turchia erano state issate a mezz’asta e tutti si sono messi sugli attenti, compresi i civili, osservando un minuto di silenzio (anch’io mi sono adeguato alla circostanza in segno di rispetto per il popolo turco), con le sirene delle navi che echeggiavano sul Bosforo. Le gigantesche immagini del Padre della patria erano disseminate dappertutto lungo i viali della città, così come le bandiere nazionali. Insomma si vive ancora fortemente il culto della personalità.
Eppure ho avuto la sensazione che lo stato laico creato da Atatürk stia diventando un ricordo. Istanbul è una città dove ogni cento metri c’è una moschea: ve ne sono un’infinità. Come se non bastassero, a piazza Taksim è in corso d’opera la costruzione di una nuova, imponente. In occidente succede il contrario, cioè le chiese vengono chiuse o vendute. Bisogna che ci si dia una svegliata invocando la Santa Sofia (Oriana Fallaci docet).
All’amico fraterno Fabio Sensini, il Kílian Jornet i Burgada di Avigliano Umbro che doveva seguirmi, auguro una pronta guarigione e di ritornare più forte di prima.